Studiare ed esplorare i modelli di cambiamento in psicoterapia è fondamentale per il futuro della ricerca e per il miglioramento della psicoterapia. Nonostante l’aumento continuo di teorie e numerose indagini che dimostrano l’efficacia complessiva di molti trattamenti psicologici, sono stati fatti pochi progressi nella comprensione del cambiamento psicoterapeutico. Ancora oggi ci si chiede quali siano i fattori che promuovano più di altri il cambiamento entro una psicoterapia o consulenza psicologica e quali siano gli ingredienti essenziali per vederlo “lievitare”. Il dibattito spesso ha preso la strada del confronto tra gli approcci di psicoterapia come fosse una lotta al più forte, per poter dire quale sia il più efficace tra tutti, in ragione di un cambiamento della persona. Al di là delle particolarità di ogni approccio e del fatto che, sulla base di queste, uno può risultare più adatto per un contesto psicologico/psicopatologico, sono fattori aspecifici quelli attivi e promotori di un cambiamento, che sono comuni a tutti gli approcci di terapia e consulenza. Qualunque grado di cambiamento del cliente può essere attribuito a un comune processo e a comuni aspetti condivisi da tutti gli approcci, piuttosto che specifici elementi impiegati solo da pochi (Wampold, 2015).
I cosiddetti fattori comuni al cambiamento sono stati sempre più studiati: insieme complessivamente danno forma ad un modello teorico sul meccanismo di cambiamento in psicoterapia quindi sono più che un set di elementi terapeutici connessi al cambiamento perché sono quelli da cui dipende in prima linea il “risultato finale”. I fattori comuni al cambiamento nella psicoterapia potrebbero essere ritrovati e raggruppati in tre dimensioni che sono le caratteristiche del cliente, caratteristiche del terapeuta e il processo di cambiamento (Lin, 2006). Più che da aspetti più prettamente specifici di un orientamento è stato osservato che il risultato di una consulenza e / o di un processo terapeutico è più frequentemente influenzato dalle caratteristiche personali del consulente / terapeuta e sentimenti positivi del cliente (Strupp, 2001): fattori non specifici (comuni) che possono suscitare interazioni emotive e interpersonali terapeutiche.
Ma prima c’è un aspetto imprescindibile e onnipresente in una psicoterapia di cui parlare, ossia la relazione. È necessario che si instauri una relazione reale tra paziente e terapeuta. Per quanto riguarda la relazione reale col terapeuta: si tratta di una relazione sociale insolita in quanto l’interazione è confidenziale, con alcuni limiti per via del codice deontologico (ad es., Segnalazione di abusi sui minori), ma comprendendo la comunicazione di materiale “difficile”, intimo (ad es., di infedeltà al coniuge, di affetti vergognosi e così via) che tuttavia non interrompe il legame. Di base si caratterizza per un certo grado di fiducia e pare che maggiore sia l’attenzione data a sfere più protette dell’esperienza interiore, quanto più il legame sarà profondo e più caratterizzato da fiducia e forte attaccamento. La psicoterapia fornisce al paziente una connessione umana con un individuo empatico e premuroso, che dovrebbe promuovere la salute, specialmente per i pazienti che hanno relazioni sociali depauperate o caotiche (Wampold, 2015).
Uno delle dimensioni entro cui raggruppare e studiare i fattori comuni -come scritto più sopra- è quella del processo del cambiamento, ma per meglio comprendere è necessario esplorare cosa comprende il cambiamento, per orientarsi meglio.
Fin dalla fine degli anni ‘60 a guidare la ricerca in psicoterapia vi era l’interrogativo su quale trattamento fosse più efficace per un tipo di individuo con un certo disturbo specifico (Paul, 1967), e infatti molti filoni di indagini si focalizzarono sul “cosa funziona per chi” in un’ottica però molto causalistica. In ciò però viene a mancare l’attenzione al “come”, quindi all’osservazione di tutto ciò che accade dal soggetto, dal pre, verso il risultato. Ma “prima di poter spiegare, forse dobbiamo descrivere cosa succede” (Kazdin, pag. 541). In effetti, sulla base di questo fattore centrale si è bipartita la ricerca sul cambiamento in psicoterapia in campi indicati come “ricercatori del processo” e “ricercatori del risultato”. Da una parte il campo di ricerca sui risultati si trova in perdita quando si vede di fronte a studi clinici randomizzati con due o più trattamenti attivi, poiché fino a poco tempo fa l’attenzione si è concentrata quasi esclusivamente sul cambiamento dei risultati finali. La ricerca di processo, d’altra parte, si è trovata spesso soverchiata da un numero quasi smisurato di caratteristiche terapeutiche (e dalle loro interazioni) disponibili per lo studio, derivandone deludenti conclusioni (Stiles & Shapiro, 1994). I due campi di ricerca sono arrivati a polarizzarsi tanto che il processo viene generalmente ignorato negli studi sui risultati e spesso negli studi sui processi si suppone che il risultato sia irrilevante: questo complica la già articolata e difficile indagine sul cambiamento in psicoterapia. Volendo indagare però i fattori comuni al cambiamento, ci muoviamo entro il campo dedicato al processo, se non entro un’integrazione tra questi due filoni. Nel quadro attuale sul cambiamento in psicoterapia si possono identificare più componenti, almeno tre principali: i processi di cambiamento, i meccanismi di cambiamento e poi i risultati finali (Doss, 2004).
I processi di cambiamento sono aspetti della terapia, che si verificano durante la sessione di trattamento o come risultato diretto di compiti a casa di terapia, che successivamente creano miglioramenti nei meccanismi di cambiamento. Nel quadro attuale, i processi di cambiamento sono ulteriormente distinti in processi di cambiamento della terapia e processi di cambiamento del cliente. I processi di cambiamento della terapia sono interventi, direttive o caratteristiche della terapia costruite dal terapeuta che si ipotizzano essere “ingredienti attivi” di un trattamento e influenzano successivi processi di cambiamento del cliente. I processi di cambiamento del cliente, a loro volta, sono comportamenti o esperienze del cliente che si verificano come risultato diretto dei processi di cambiamento della terapia e dovrebbero portare a miglioramenti nei meccanismi di cambiamento: tutti i processi di cambiamento del cliente che avvengono dovrebbero essere misurati durante la sessione di trattamento.
Si deve considerare che non è così lineare il meccanismo di influenza, ed è anche ammettendo questo che si è arrivati ad attenzionare altre variabili, mediatrici e moderatici: è possibile infatti che un processo di cambiamento della terapia non possa effettivamente influenzare un processo di cambiamento del cliente come ipotizzato, e diversi processi di cambiamento della terapia possono creare lo stesso processo di cambiamento del cliente. La seconda componente principale del cambiamento sono i meccanismi di cambiamento: si intendono cambiamenti intermedi nelle caratteristiche o abilità del cliente che si sono generalizzati nella vita del cliente. Si potrebbe dire dunque che i meccanismi di cambiamento del cliente non sono sotto il “controllo diretto” del terapeuta, nel senso che non sono frutto dei processi di cambiamento della terapia e si dovrebbero misurare al di fuori della sessione di terapia, ma ciò nonostante potrebbero portare a miglioramenti nei risultati finali della terapia. Questa distinzione è utile considerarla se si pensa ad esempio alle numerose ricerche in letteratura in cui figura, in una parte dei risultati, una variabilità da altri fattori non specificati, magari non controllati/controllabili, in definitiva inspiegabili. Ancora, l’attenzione a meccanismi e processi di cambiamento del cliente, ci rimanda nuovamente al fulcro dell’articolo, i fattori comuni al cambiamento e in particolare al sottogruppo delle caratteristiche del cliente e caratteristiche del terapeuta.
Tecniche ed elementi comuni ad ogni processo di cambiamento
Si possono individuare un insieme di tecniche comuni in terapia che riguardano combinazioni di tecniche terapeutiche di tipo affettivo, esperienziale, cognitivo e comportamentali che sono in gran parte influenti sui miglioramenti attesi. Queste tecniche possono essere raggruppate in tre categorie secondo Lambert e Bergin (1994), ossia tecniche di supporto (per esempio, dare fiducia, calore, rispetto, rassicurazione, e un minore senso di isolamento), di apprendimento (ad esempio, fornire feedback, riconcettualizzare un problema, fare esperienza affettiva) e di azione (ad esempio, regolazione comportamentale, fare pratica di nuovi comportamenti, affrontare una paura). La presenza di questi presenti fattori comuni avvia già dei processi di cambiamento a catena, intanto favorendo la sperimentazione in un cliente di un maggiore senso di fiducia, sicurezza e protezione, insieme a una riduzione della tensione, della minaccia e dell’ansia e creano le condizioni per promuovere la consapevolezza del cliente dei problemi e la sua capacità di prendere decisioni appropriate affrontando le paure utilizzando nuovi e più adattivi meccanismi e comportamenti di coping; poi, con il successo nella messa a punto di nuovi comportamenti, i clienti diventano sempre più motivati a risolvere problemi legati al loro funzionamento intrapersonale e interpersonale.
Sotto influenza del modello medico, e anche per conquistarsi e tenersi stretti la scientificità i professionisti della psiche hanno messo la psicoterapia in parallelo ad un trattamento per una condizione o disturbo patologico in modo analogo alla medicina. Analogamente al pensiero medico, il trattamento “vero” sta negli “interventi potenti” e dunque per diverso tempo non era pensabile che a produrre cambiamento fossero fattori non specifici come la relazione questo potrebbe persino invalidare la psicoterapia come una scienza potente. Assieme agli interventi potenti la visione potentemente asimmetrica tra paziente e terapeuta in cui il primo aveva un ruolo tendenzialmente passivo verso il suo stesso cambiamento terapeutico, proprio perché è anche la persona portatrice di una disfunzione, di un’incapacità, quindi la parte mancante e ricettiva delle azioni del terapeuta verso il cambiamento. Secondo questo modello dunque c’è una relazione causale meccanicistica che prevedrebbe che, linearmente, il “trattamento” opera sulla condizione nel paziente per causare il risultato. Se ancora ci sono modelli in cui l’eroe in questione è il terapeuta, questa forte asimmetria è stata superata con la considerazione che in fondo il fattore comune più importante è il cliente e le sue caratteristiche (Bohart, 2000). Tuttavia la terapia non è analoga al trattamento medico per varie ragioni. Intanto la guarigione in terapia -termine anch’esso preso a prestito dal contesto medico- non dipende unicamente dall’intervento/trattamento e la relazione non funge da tranquillante per preparare il cliente a riceverlo. In secondo luogo l’esperienza e non è poi così cruciale come la in medicina e non ci sono potenti interventi specifici per ogni disturbo. Inoltre la competenza del terapeuta nell’applicazione dei trattamenti dovrebbe essere cruciale, rendendo il trattamento fornito dal terapeuta molto più efficace delle procedure di auto-aiuto (Ibidem).
Ci sono aspetti del terapeuta che rientrano tra i fattori aspecifici e possono essere considerati fattori comuni al cambiamento. È risultato in letteratura come l’età del terapeuta/consulente fosse una variabile che porterebbe differenze nell’esito della terapia.
Una ricerca del 2009 che coinvolse terapeuti, con livelli di formazione vari e differenti approcci, di un centro di consulenza e un numero di pazienti registrati dall’archivio che avessero svolto almeno tre sedute. A pazienti e terapisti è stato chiesto di compilare dei questionari self report, ai primi in particolare un self report sui sintomi, mentre ai terapeuti un questionario self report sulle abilità sociali percepite e sulle abilità interpersonali facilitative. Queste ultime vennero indagate tramite il Facilitative Interpersonal Skills (FIS) Performance Task (Anderson et al., 2007), questionario progettato per suscitare risposte indicative della capacità di una persona di percepire, comprendere e comunicare un ampio range di messaggi interpersonali, nonché la capacità di persuadere altre persone con problemi personali ad applicare le soluzioni suggerite ai loro problemi e abbandonare modelli disadattivi. Si sono evidenziate notevoli differenze tra i terapeuti riguardo a risultati medi tra i clienti e osservando alcune potenziali fonti degli effetti è risultato che, tra quelle osservate che riguardavano il terapista (età, sesso, percentuale del tempo di lavoro, conduzione del trattamento e l’orientamento teorico del terapeuta) solo l’età del terapeuta rappresentava differenze nell’esito della terapia (Anderson, et al., 2009). Più nello specifico, i terapisti più anziani producevano superiori risultati: questo si è ipotizzato essere visto come un indicatore dell’accumulo di esperienza clinica necessaria per padroneggiare le qualità interpersonali. In effetti anche nello studio l’età e la FIS sono stati osservati come significativamente correlati. Dunque c’è variabilità negli esiti della psicoterapia che può essere collegata alla persona che la conduce e sembra che una parte di questa variabilità possa essere collegata specificamente ad abilità interpersonali della stessa. Gli studi hanno dimostrato che i terapisti più efficaci si distinguevano proprio per maggiori livelli di abilità interpersonali facilitative, sono in grado di formare alleanze più forti e nutrono più dubbi e domande sul proprio lavoro professionale (Wampold, 2015). Le qualità comuni dei terapeuti più efficaci sono state anche ben organizzate da Whitbourne (2011) che mette in risalto l’abilità di aiutare il cliente a creare fiducia nel terapeuta e la volontà di stabilire un’alleanza con il cliente, adattando il programma di trattamento alla persona (sensibilmente al suo background culturale) con flessibilità e che siano aggiornati e continuino a formarsi. Altro aspetto citato è l’ispirazione di speranza sulle possibilità di miglioramento. A questo proposito è stato scoperto che gli psicoterapeuti che nutrono aspettative significativamente più alte per il miglioramento del cliente si associavano con il fatto che i clienti sperimentassero o meno cambiamenti clinicamente significativi durante la psicoterapia: dunque l’aspettativa elevata del professionista correlava positivamente con un cambiamento clinicamente significativo nei clienti, spiegando una varianza del 7.3% (Connor & Callahan, 2015).
Il cliente come fattore comune al cambiamento ha ricevuto in precedenza poca attenzione. Secondo il modello contestuale i pazienti vengono in terapia con una spiegazione del loro disagio, formata dalle proprie convinzioni psicologiche che, oltre ad a risentire dell’influenza culturale sono anche idiosincratiche (Wampold, 2015). Kelly (1955) chiamò l’insieme di convinzioni e teorie sul mondo, che la persona come uno scienziato si costruisce, costrutti personali, e iniziò a tenerne degnamente conto nel processo di terapia. In generale il cliente va anche alla ricerca di una psicoterapia le cui basi teoriche sono in accordo con le proprie idee sul funzionamento psichico: alcuni conflitti tra terapeuta e cliente infatti sembrano derivare da contrasti in merito alle rispettive teorie sulla cura (Wile, 1977). In merito a ciò si può ipotizzare che un disaccordo sulle teorie di base non favorisca poi l’accordo sugli obiettivi della terapia stessa. Il cliente si rivolge ad un consulente/terapeuta perché non ha risolto i problemi con le sue proprie risorse, ma è un agente attivo (già solo con l’atto di muoversi in cerca di un cambiamento) ed è un sistema complesso e intelligente. Esso porta un “bagaglio mentale” di teorie, credenze, aspettative e speranze insieme alle sue risorse e alle sue problematiche, che sono fattori che molto più di altri sono capaci di influenzare in positivo (o in negativo) il cambiamento. Le aspettative del cliente sono uno degli elementi dalla più forte influenza. Un’aspettativa positiva sul percorso terapeutico in procinto di iniziare, come da effetto Rosenthal, può fare in modo che “le cose” vadano effettivamente in meglio, come ci si aspettava. Quando invece il paziente arriva portandosi sulle spalle delle basse aspettative, perché demoralizzato dalla situazione che vive, la psicoterapia, esercitando di base un accoglimento e un contenimento va a stenebrare e rimoralizzare. La terapia comunque è molto più che una semplice “rimoralizzazione” perché apre a significati e/o spiegazioni delle sue difficoltà, e il paziente entro di essa partecipa, fa, fa esperienza, fino a sentire di essere in grado di far fronte ai suoi problemi, anche in futuro: i pazienti operano su input del terapeuta e, detta un po’severamente, lo usano per raggiungere i propri fini. Vi sono tante evidenze che dimostrano che il cliente ha in sé nel suo bagaglio degli aspetti funzionali al cambiamento per esempio dalle percentuali di persone che da traumi o situazioni problematiche sono riuscite ad auto-guarirsi, spesso anche usando stessi processi di risanamento che usano i terapisti (per es. Tedeschi, Park, & Calhoun, 1998).
Nella maggior parte dei modelli di terapia il cliente è la parte “mancante” e fragile, contrapposta alla figura del terapeuta che è come se fosse l’eroe/eroina entro la terapia (Bohart, 2000), quando invece il cliente costruisce da sé metà, se non di più, dell’itinerario verso il cambiamento. Il fatto di approcciarsi allo studio dei meccanismi di cambiamento del cliente (introdotti più sopra) ci porta già a ipotizzare quanto sia rilevante il cliente e le sue stesse caratteristiche, nel cambiamento che lo riguarda, anche in indipendenza dall’azione del terapeuta. Come affermano Duncan e Miller (2000) <<il punto di vista del cliente sulla relazione è la “carta vincente” nel risultato della terapia, secondo solo alla mano vincente dei punti di forza del cliente>>. C’è ragione dunque per pensare che il cliente operi sui trattamenti e le procedure per produrre effetti. L’agentività e i “poteri di guarigione” del paziente stesso, che sono in primo luogo nelle costruzioni teorico discorsive che porta, andrebbero messi in chiara luce: potrebbero aiutare nella pratica e nella ricerca clinica a fare grandi passi avanti. Sarebbe necessaria però prima una riflessione epistemologica sulla psicologia clinica per arrivare a disancorare la psicologia, come la psicoterapia, dalla linea del modello medico, che continuerebbe a rendere vane queste ricerche che ammettono l’incertezza e l’incontrollabilità, e danno voce in capitolo al cliente come soggetto agente. La psicologia, e la psicologia clinica, devono ricercare la propria scientificità nell’adeguatezza epistemologica e non omologandosi alla medicina o alle scienze cosiddette –ica (es. fisica, chimica). Annoverandosi tra le scienze logos deve utilizzare teorie di riferimento che vengono date alla luce nel e con il linguaggio ordinario, affiancandosi anche coraggiosamente alle modalità conoscitive del senso comune, di cui si serve lo paziente/cliente di cui si è parlato fin ora. In ultimo, queste e altre fertili ricerche ed esplorazioni di fattori comuni al cambiamento sono utili a fini clinici se si lascia andare l’idea che in psicoterapia ci sia una semplice relazione meccanicistica lineare tra un trattamento/intervento e il risultato, e si riparta dall’idea che il terapeuta sia prima di tutto una persona che instaura una particolare relazione in cui si incontrano due sistemi attivi complessi e intelligenti.
Dearca Beatrice e Luca Rizzi
Bibliografia
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