Cosa sono le emozioni?

cosa sono le emozioni

1884: Nasce la psicologia delle emozioni

La psicologia delle emozioni è nata con William James che nel 1884 pubblicò l’articolo “What is an emotion?” in una rivista di filosofia chiamata Mind. In questo articolo l’autore si chiedeva cosa fosse un’emozione e da cosa avesse origine. La sua tesi era che l’emozione viene sperimentata in seguito alla percezione cosciente delle modificazioni comportamentali e fisiologiche che avvengono nel nostro corpo successivamente ad un particolare evento. Così, se vediamo un orso, ne abbiamo paura nel momento in cui ci accorgiamo della nostra aumentata frequenza cardiaca, della nostra aumentata sudorazione e del fatto che stiamo scappando da esso (James, 1884).

Nel corso degli anni diversi ricercatori si sono posti lo stesso quesito di James (1884) e hanno dimostrato che la sua risposta era sbagliata (Cannon, 1929). L’importanza di questo autore rimane, comunque, invariata e la Psicologia gli è grata per aver sollevato il problema di cosa fosse un’emozione ponendoci la famosa domanda da cui prende spunto il titolo di questo paragrafo.

Molte teorie si sono susseguite nell’ultimo secolo su cosa fossero le emozioni e diversi autori hanno dato la loro “parziale” risposta, mettendo di volta in volta in luce un aspetto della risposta emotiva (spesso riportando le emozioni a ciò che andava di moda in un determinato momento storico). Negli ultimi decenni gli studi di neuroscienze (Damasio, 1999, 2003; LeDoux, 1996, 2016; Porges, 2011), hanno confermato una definizione condivisa dalla maggior parte della comunità scientifica che descrive le emozioni come componenti adattive del funzionamento umano. Le risposte emotive si sarebbero conservate nell’evoluzione poiché forniscono una valutazione immediata del grado in cui gli obiettivi o i bisogni sono o meno soddisfatti nell’interazione con l’ambiente (Frijda, 1986). Esse, inoltre, preparano l’organismo dal punto di vista fisiologico, comportamentale e cognitivo per permettergli di adeguarsi alle circostanze.

Cosa succede quando proviamo un’emozione?

Quando viene “accesa” un’emozione dentro di noi, questa a sua volta innesca una reazione a catena che coinvolge diversi sistemi, dando origine a una risposta complessa, definita anche come “sindrome reattiva multidimensionale” (Reisenzein, 1983). Questo significa che quando proviamo un’emozione, è possibile distinguere almeno tre effetti che essa ha nel nostro corpo e nel nostro comportamento: effetti fisiologici, cambiamenti espressivi e l’esperienza soggettiva.

Effetti fisiologici delle emozioni

Le modificazioni fisiologiche che seguono uno stimolo saliente hanno la funzione di preparare l’organismo ad una eventuale fuga o ad un attacco o a qualsiasi altro tipo di risposta all’ambiente. In particolare la valutazione di uno stimolo saliente da parte del sistema nervoso centrale attiva il sistema endocrino e quello nervoso autonomo (D’Urso, 1990).

Ciò che risulta interessante nella risposta fisiologica e il suo impiego per imparare a gestire l’emozione è che ogni emozione si riflette sul corpo: di fronte a qualsiasi emozione è possibile guidare la persona a individuare una parte del corpo in cui l’emozione si manifesta e questo processo aiuta ad oggettivare e a controllare l’emozione stessa. In uno studio di Nummenmaa ed altri del 2014 sono state rappresentate le espressioni corporee delle diverse emozioni, sia quelle di base che quelle complesse, mettendo in luce come, in diversi distretti, ci siano diverse sensazioni di attivazione.

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L’importanza di esprimere le emozioni

Quando ci emozioniamo il nostro corpo esprime in automatico verso l’esterno l’emozione attraverso diversi canali. Ogni emozione può essere espressa mediante la mimica facciale, la voce, la postura e la gestualità.

Sicuramente nell’uomo il volto è il canale che maggiormente si è evoluto a questo scopo. Ekman e Friesen (1972; 1977), hanno studiato come i muscoli facciali modificano l’espressione del volto e hanno pubblicato nel 1978 il Facial Action Coding System (FACS), un sistema di codifica dei movimenti del viso da cui è derivato, successivamente, il sistema chiamato Emotion Facial Action Coding (EMFACS), sviluppato dagli stessi autori qualche anno dopo (1984). Entrambi FACS ed EMFACS sono stati costruiti su base anatomica per misurare oggettivamente i movimenti facciali visibili. Sulla base dei risultati empirici, il FACS comprende 44 movimenti facciali discriminabili visibilmente che, singolarmente o in combinazione, rappresentano tutti i movimenti facciali possibili. Questi movimenti sono chiamati “unità d’azione” (AU). Ad ognuna di queste unità d’azione è stato assegnato un numero, in modo che ad ogni movimento visibile nell’espressione del viso possa essere assegnato un codice. Oltre al codice numerico, ad ogni movimento facciale vengono anche assegnati dei codici letterali in base all’intensità del movimento, alla lateralità e all’asimmetria di alcune unità di azione. In confronto al FACS, l’ EMFACS registra solo quelle unità d’azione associate alle emozioni.

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Gli stati emotivi sono in grado di agire anche sulla voce e sui pattern linguistici modificando la variazione della frequenza fondamentale, l’intensità, la distribuzione dell’energia nello spettro e alcuni pattern temporali o ritmici del parlato. Alcune ricerche hanno rilevato la presenza di correlazioni tra condizioni di stress e comparsa di certi indicatori linguistici nel parlato come l’esitazione, la mancanza di fluenza, l’elevazione del tono della voce e l’accelerazione del ritmo (Davitz, 1964). Altre ricerche (Scherer, 1986) hanno dimostrato che le emozioni provocano effetti stabili e resistenti sulla voce e sul parlato: emozioni caratterizzate da un alto grado di attivazione psico-fisiologica si esprimono nel parlato attraverso la combinazione di alta frequenza e ampia estensione della voce ed alta velocità, mentre emozioni caratterizzate da un basso grado di attivazione psico-fisiologica sono caratterizzate da bassa frequenza fondamentale, limitata estensione della voce e da ridotta velocità del parlato.

Un altro tipo di risposte comportamentali è rappresentato dai gesti e dai movimenti del corpo che sono strettamente correlati al grado di attivazione emozionale (Ricci Bitti, Argyle & Giovannini, 1979). Anche la postura, assieme agli altri indici, può essere espressione di uno stato emozionale, segnalando il livello di attivazione mediante il grado di tensione o di rilassamento.

Le emozioni hanno una funzione comunicativa dal momento in cui un organismo riesce a esprimere e, quindi, a trasmettere il proprio stato interno che viene recepito e compreso dagli organismi della stessa specie che si comportano di conseguenza (D’Urso, 1990). Come aveva asserito Darwin (1872), l’espressione delle emozioni è utile nelle specie sociali, uomo incluso. L’espressione comportamentale delle emozioni riguarda, infatti, quelle situazioni la cui comunicazione ha un valore adattivo per la specie e ha una funzione strettamente legata alla sopravvivenza.

Basandosi su questo concetto, molti interventi psicoterapici si basano sull’insegnare ai pazienti ad esprimere le proprie emozioni, per il valore comunicativo e relazionale che ogni emozione, anche spiacevole, può avere. Alcuni adulti hanno paura di mostrarsi deboli nell’esprimere paura o di perdere la relazione nel mostrare la rabbia. Ciò che viene insegnato loro è l’utilità di essere arrabbiati o spaventati, insieme all’importanza di gestire il comportamento che consegue l’emozione. È importante, in altre parole, imparare a distinguere la risposta emotiva (provo X), dalla risposta espressiva (ti mostro o ti dico che sto provando X), dalla risposta comportamentale (agisco spinto da X). È la risposta comportamentale che può essere controllata, gestita e modificata o che, al contrario, può essere disadattiva e rendere le emozioni così “disastrose”. Tornando alla storia all’inizio del presente capitolo sul vecchio Cherokee, è il comportamento che consegue l’emozione che nutre il lupo “buono” o quello “cattivo” dentro di noi. Arrabbiarsi è naturale, rompere i piatti contro il muro o passare la notte pensando a tutti i torti subiti ed escogitando un piano di vendetta, invece, non sono comportamenti utili, anzi, nutrono, dentro di noi, il sistema emotivo della rabbia, o, rimanendo nella storia, il lupo “cattivo”.

In Inside out, lo sviluppo della capacità di inibire, o controllare, l’impulsività delle emozioni, è rappresentata attraverso la grandezza e la complessità della console, attraverso la quale le emozioni governano il comportamento: dall’età prescolare, dove la console di controllo emotivo ha un solo grande tasto, all’età adulta, dove la console di comando è estesa e le emozioni dispongono di chiave come sistema di sicurezza per non perdere il controllo.

Essere consapevoli delle emozioni che si sta provando

Gli studi che sono stati presi in considerazione fino a questo punto hanno trattato le risposte fisiologiche ed espressive delle emozioni, che avvengono entrambe anche in assenza della coscienza, sono automatiche e in gran parte innate. L’emozione, tuttavia, è per l’uomo molto più di questo perché comprende anche l’esperienza soggettiva e il diventare consapevoli che si sta provando un’emozione. Secondo LeDoux (1996) un’esperienza emotiva soggettiva si produce quando diventiamo coscienti dell’attivazione di un sistema cerebrale emotivo. Ad esempio, l’emozione della paura sarebbe causata dall’attivazione di un particolare sistema cerebrale che coinvolge una struttura, l’amigdala, che provoca una serie di reazioni a catena che sono alla base delle risposte fisiologiche e di quelle espressive. La presa di coscienza dell’attivazione di questo sistema determina l’esperienza soggettiva della paura.

Le Doux (1996) sostiene che la consapevolezza delle emozioni, per quanto importante e centrale possa sembrare, sia solo una “ciliegina sulla torta” e che le emozioni si siano evolute in assenza di questa per cui possono anche farne a meno per assolvere ai loro scopi.

È comune non essere consapevoli delle proprie emozioni a diversi livelli: a tutti può capitare di riconoscere una sensazione d’ansia senza saperne il motivo o “avere la luna storta”, provando fastidio verso qualcuno o qualcosa senza che apparentemente ci sia stato un evento scatenante. La mancanza di consapevolezza a volte non riguarda lo stimolo scatenante, bensì la capacità descrittiva di uno stato interno: può capitare di percepire una sensazione spiacevole nel corpo, ma di non saper individuare se si tratta di rabbia, paura o tristezza. In base alla spiegazione che ci diamo, ci comporteremo di conseguenza: etichettare come ansia un’emozione di rabbia, ad esempio, comporterà una nostra ricerca di protezione o un tentativo di evitare contesti stressanti, allontanandoci dalla “soluzione” del problema. La mancanza di consapevolezza può risiedere anche nella non comprensione del nostro comportamento: possiamo scegliere di non uscire per andare al cinema e darci la spiegazione razionale che siamo stanchi, quando invece a fermarci può essere l’ansia di incontrare qualcuno di non gradito.

La non consapevolezza spesso complica la vita: il nostro sistema cognitivo cerca sempre di trovare una logica, riempiendo i buchi della non consapevolezza con qualche spiegazione o storia. Laddove, però, queste storie non siano corrette, rischiamo di mettere in atto una serie di comportamenti che sprecano le nostre energie e, spesso, alimentano il nostro malessere.

… e nella pratica? L’intelligenza emotiva

Lo studio delle emozioni ci serve a imparare a gestirle e, per noi psicoterapeuti, è fondamentale per metter a punto training che aiutino le persone a non rimanere intrappolate nell’ansia o nella depressione, nella rabbia o nella continua ricerca di piacere e felicità. Uno dei training maggiormente riconosciuti e famosi sulle emozioni è il training sull’intelligenza emotiva.

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