Dimenticare la figlia in auto: il perdono è possibile?

Stamattina mi è giunta l’ennesima storia straziante della mamma che ha dimenticato la figlia di un anno in auto. I mass media puntano il dito contro questa donna e altre prima di lei, usando il loro dolore per fare audience e vengono postati tanti ricamati discorsi sugli effetti nefasti dello stress per dare una spiegazione razionale all’accaduto. Tutti cercano “scandalizzati” la notizia e giudicano questa donna, per trovare una rassicurazione nell’etichettare (è “diversa” da me) o nel darsi spiegazioni (a me non può succedere perché….bla bla). Messa a tacere l’ansia che possa accadere anche a noi, la notizia viene dimenticata, fino alla prossima disgrazia, certi che il nostro stress non è a quei livelli e che non abbiamo tempo di occuparcene adesso.

Ma quanti hanno davvero il coraggio di ammettere che potrebbe succedere a chiunque nei momenti difficili della propria vita? Quanti provano a mettersi nei panni della mamma che dimentica il proprio figlio in auto?

Se io penso a questa donna, penso a una mamma come me, una lavoratrice come me, una persona oberata e vulnerabile al commettere errori, esposta agli effetti di un pilota automatico che è DAVVERO difficile fermare e controllare (e non si ha tempo per imparare a farlo!).

È straziante pensare se fosse successo a me, invece che a quella mamma: sarebbe difficile tenere quel fardello addosso, guardare negli occhi le persone che amo, credere in qualcosa. La durezza delle mie autocritiche diventerebbe una meritata morsa quotidiana, dalla quale non sarebbe facile vedere un “E POI…”. Solo il suicidio, la follia, l’esilio potrebbero liberarmi da me stessa.

Sono una psicoterapeuta, so che queste “soluzioni” alimentano solo mostri interiori e dolore. Ed è così che rifiutando razionalmente queste possibilità “horror” è emersa nella mia mente un’altra parola: “PERDONARSI”.

https://pi.tedcdn.com/r/pf.tedcdn.com/images/playlists/practice_self_care_1200x627.jpg?c=1050%2C550&w=1050

L’unica via possibile è perdonarsi, guardare il proprio dolore, ascoltarlo e prendersene cura. Sembrano belle parole, ma cosa vogliono dire??

Il perdono è un percorso, nasce dall’intenzione di mettere un semino che poi dà i suoi frutti attraverso l’impegno quotidiano. Il perdono necessita di tempo, di consapevolezza, di amore verso quella odiata parte debole che c’è in ognuno di noi e che accusiamo come responsabile delle cose peggiori che accadono. Abbiamo passato una vita a cercare di far fuori la nostra fragilità, ma l’unica strada per salvarci davvero è amarla.

Può suonare come la cosa più difficile al mondo, e forse lo è davvero, soprattutto nei casi estremi come quello dei genitori responsabili della morte dei propri figli.

Ognuno di noi ha qualcosa con cui non fa pace: una colpa che non può essere risanata, anche piccola, anche passata, anche non voluta. Da mamma mi sento in colpa per tutte le volte che ho sgridato mia figlia spinta dalla stanchezza o dalla paura. Mi sento in colpa per non riuscire a giocare spensierata con lei, perché sempre incupita dalle cose da fare. Sono cose piccole, ma fanno male. Imparare a perdonarsi è difficile e richiede la disponibilità a contattare il proprio dolore. È una cosa che si impara e richiede impegno, non arriva da sé.

germer- perdono

Sul perdono ho imparato tanto leggendo “The mindful path to self-compassion” di Christopher Germer, un libro che mi ha cambiata e ha cambiato anche il mio modo di fare la psicoterapia. Essere gentili con se stessi, soprattutto quando si è fragili e si soffre, quando si sta male, quando si provano sensazioni spiacevoli ha avuto un potere enorme su di me. Di fronte un semplice (ma doloroso) mal pancia, ho imparato a rivolgere dolcezza verso me stessa, guardare la mia pancia come si guarda ad un bambino con la febbre. Quando non conoscevo la self-compassion invece avrei accusato innervosita me stessa e la mia pancia, rimproverandola in quanto inutile ostacolo al mio “rendimento” quotidiano.

Ho iniziato così a rispondere in modo nuovo al mio dolore, alle mie insicurezze e poi ho continuato a nutrire la piantina della gentilezza e del perdono insieme a cari colleghi, insieme ai miei pazienti, insieme a mia figlia, imparando a guardarla negli occhi proprio nei momenti in cui mi fa più male vedere le sue lacrime che cerca di trattenere, imparando a starle vicino quando mi rifiuta.

La parola “perdono” per me è stata una porta verso un mondo ricco, intenso, commovente che mi sta cambiando in profondità.

È un mondo che auguro di cuore a tutte le persone davvero tormentate, sofferenti, che si trattano con durezza, di scoprire prima o poi lungo il loro viaggio.

Auguro a quei genitori, straziati dalla colpa e dal dolore, di trovare il silenzio e la dolcezza del perdono dentro di sé. Anche nelle situazioni più drammatiche una nuova vita è possibile. Sempre.