Ho comprato il libro della Hunziker “Una vita apparentemente perfetta” incuriosito dall’ascolto di un’intervista fatta a Michelle e con l’idea di trovare descritta una storia di dipendenza affettiva per analizzarla sotto la luce della mia pratica clinica.
Questo libro sicuramente è avvincente nello scoprire come Michelle è prima entrata e poi uscita dalla sua prigione di dipendenza affettiva. Leggendolo mi si è stretto lo stomaco, nel rivivere una storia simile a quella di alcuni miei pazienti in terapia vittime di persone manipolative. Persone che dicono delle cose molto auree, logiche, perfette, ma che poi fanno tutt’altro.
Michelle, come lei stessa scrive, è una delle tante donne e uomini sfigati con una storia alle spalle pesante. Padre alcolista, madre “dura” e poco propensa a mostrare i propri sentimenti, bullizzata a scuola, debiti per gioco d’azzardo, separazione dei genitori e allontanamento dalla Svizzera per seguire la madre in Italia.
Nonostante i presupposti non fossero dei migliori, Michelle racconta come è arrivata a farsi conoscere nel mondo della moda, al matrimonio con Eros e al successo. Ma se in “Cenerentola” questo sarebbe il lieto fine della fiaba, per lei invece non è stato che l’inizio di un secondo, di nuovo drammatico, capitolo: arricchitasi e divenuta popolare è stata sedotta da una setta che l’ha isolata e ha approfittato di lei per anni. Per fortuna, come ogni fiaba che si rispetti, Michelle ne è uscita.
Ma, al di là del racconto, la mia domanda da clinico è: è stato un caso che sia caduta in trappola o c’erano dei presupposti che hanno reso più probabile che ciò avvenisse? Ed è stato un caso che ne sia uscita, o, di nuovo, ha seguito l’unico percorso che era possibile?
Nell’appassionante lettura di questa vita di successi e insuccessi, troviamo un terreno emotivo fertile per lo sviluppo di una personalità dipendente:
Come in ogni disturbo psicologico, non è provare queste emozioni il problema: alzi la mano chi non ha mai provato vergogna o colpa nella propria vita. Il problema è il controllo che si vuole avere su queste emozioni e la lotta che inizia, più o meno consapevolmente, contro di esse. La colpa e la vergogna gridavano nella testa di Michelle che sarebbe rimasta sola, non accettata, non amata per i suoi difetti e per le sue azioni. E che l’unica soluzione era cambiare.
Diventare speciale e perfetta era il suggerimento che la vergogna e la colpa offrivano a Michelle nei suoi momenti di malessere e paura. Eccolo, nel terreno della dipendenza, il secondo fondamentale elemento, quello che chiamo “la trappola dell’IO SONO”. “Io sono adeguata, bella, stupida, intelligente”: ogni aggettivo che la sua testa forgiava, positivo o negativo, diventava una nuova sbarra della sua gabbia e influenzava le sue certezze, il suo umore, le sue scelte come se fossero verità assolute da cui tutto dipendeva.
In questa lotta verso la perfezione per sconfiggere vergogna e colpa, Michelle non stava di certo bene e come scrive, “quando si sta male si cercano spiegazioni”. La sua mente trovava sollievo in credenze e spiegazioni “logiche” dei fatti, un tentativo quasi patetico (visto da fuori) del mettere in ordine i quattro pezzettini di puzzle che aveva la fortuna di conoscere: “per ciò che sapevo di me all’epoca, quadrava tutto perfettamente”. Ma le spiegazioni erano soggette a molti errori di valutazione: la vita nella sua ricchezza è piena di gioie, ma anche di dolore e insuccessi, è piena di variabili totalmente fuori dal nostro controllo e di cui il più delle volte ignoriamo completamente l’esistenza.
Molti di noi possono avere un terreno più o meno fertile per fare germogliare una dipendenza affettiva. Ma al di là dei punti che ho messo in luce, una variabile fondamentale rimane l’incontrare il manipolatore. E così il caso (non credo in un disegno divino riguardo a ciò) ha fatto sì che Michelle, incontrasse Clelia (o Giulia…o chiamiamola come ci pare): una donna che piano piano ha tessuto la sua fitta tela attorno a Michelle, seguendo una raffinata arte di manipolazione, più o meno consapevole. Ho apprezzato molto la descrizione di queste tecniche di manipolazione, che purtroppo, mi ricordano certi errori (od orrori) degli psicoterapeuti. Ecco i campanelli dall’allarme che in ogni relazione fanno presagire la manipolazione:
Michelle stava male e Giulia attraverso le sue dolci e premurose cure ha dato qualcosa a Michelle che l’ha fatta star bene e di cui poi non poteva più fare a meno. Cosa?
Abbiamo detto che la mente di Michelle era avida di spiegazioni e Giulia ne aveva di davvero spettacolari: dal mostrarle come alcuni fatti e segni (assolutamente comuni) erano in realtà pezzi fondamentali di un puzzle più grande e più importante, ad “aprirle gli occhi” (o la mente?) su tutte le persone che le stavano attorno, mettendo in luce proprio quei dettagli volti a dimostrare come fossero segni inequivocabili del male da cui lei doveva allontanarsi.
La trappola dell’IO SONO di Michelle fu resa ancor più solida di prima: lei non era una ragazza comune, era niente meno che l’eletta, l’antica sorella di Gesù in cerca di redenzione. Incontrando Giulia, Michelle si era sentita bene, era convinta di essere l’eletta e che seguendola avrebbe salvato la sua anima (e vinto la lotta contro vergogna e colpa).
“Mi telefonava mille volte al giorno, mi ascoltava, mi massaggiava il collo, mi accarezzava la testa, mi ripeteva: <<Non devi preoccuparti, ci sono io, sono io la tua famiglia>>”. Michelle si era sentita tante volte fuori dal cerchio, in pericolo, sola e ora gli era dato un posto sicuro dove potersi riparare da tutto. Ma proprio TUTTO, compresa la possibilità di uscirne.
Il problema di Michelle (e della dipendenza affettiva) è che non poteva andarsene da quelle persone che la tenevano in gabbia: non solo per la paura di perdere ciò che le era stato dato, ma per paura delle punizioni che ne sarebbero conseguite. Esaminiamo il sistema di punizioni:
Questa Guru o santona controllava tutto della vita della sventurata: l’attività sessuale, cosa mangiare, che persone frequentare e se Michelle trasgrediva veniva punita con l’isolamento. Michelle nel libro ricorda l’episodio in cui, affamata, si concesse di mangiare dei macaron e delle tragiche conseguenze che ciò ebbe. Se era così grave aver mangiato dei dolcetti, uscire dalla setta avrebbe significato “morte certa”.
Michelle aveva la sua mente totalmente impegnata a non disobbedire le regole e ad evitare le punizioni. Come scrive Marjane Satrapi in Persepolis: “Quando si ha paura, si perde la nozione dell’analisi e della riflessione. La paura paralizza. Del resto il terrore è sempre stato il motore di tutte le dittature”. Qualunque disgrazia, incidente, insuccesso, era colpa di Michelle, che impegnata a controllare ogni piccola mossa nella setta, aveva perso di vista ciò che era importante per lei: la sua famiglia, i suoi veri amici, se stessa.
Veniva giudicata con tale disprezzo nella setta che chiunque si sarebbe sentito una nullità a indossare i suoi bianchi panni. Isolata dalla vergogna dell’idea di non valere nulla, non aveva altro posto dove tornare che dal suo carnefice.
Dare e togliere: attraverso un rinforzo intermettetene di punizioni (per la maggior parte isolamento e minacce) e di rinforzi basati sul contatto con il gruppo, Skinner non avrebbe dubbi che chiunque sarebbe controllabile. Michelle scrive: “due secondi sollievo, due secondi disperazione, due secondi sorriso, due secondi lacrime”.
Cosa rimane ancora di nota, per la mia curiosità di psicologo? I passi per uscire dalla dipendenza affettiva:
Concludo ringraziando Michelle del coraggio per aver mostrato la sua umanissima storia, che per quanto sfortunata può essere molto ricca e essere d’aiuto a molti altri per non rimanere bloccati nella dipendeza affettiva.
Un intervista che riassume bene il libro e forse dice anche qualcosa in più per uscirne, come il perdono ecc https://www.youtube.com/watch?v=BStKe9pgzA0
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